Giù il cappello – parte 1

“MICHELE! MICHELE!”, SI SENTE DALLA PORTA DI INGRESSO A CASA SCALABRINI 634. Non è decisamente un grido, ma un una mezza voce che è poi il massimo che D riesca ad esprimere. Abbastanza, comunque, per arrivare fino all’ufficio. “Ho le chiavi della casa nuova!”. E allora un coro si leva alle mie spalle: “Emmenomale, così te levi da li cojoni!”.

D sorride imbarazzato. È uno scherzo, naturalmente e seguono pacche sulle spalle e felicitazioni. Però è vero che questa notizia, D, ce l’ha fatta sospirare, fino a farci preoccupare.

È la personificazione dello stereotipo sul ragazzone senegalese, D: come tutti inizia da terra, con due piedoni e da lì si eleva, più o meno all’infinito, senza avere, però, l’aspetto dello spilungone ‘nostrano’, ma un fisico perfettamente armonico, da fare invidia. E poi una grazia ed un’eleganza innata nelle movenze. Ha un viso da ragazzino che una barbetta crespa sul mento rende un po’ più adulto. È incredibilmente timido e introverso, incapace di sostenere lo sguardo. Ogni cosa indossi D sembra confezionata su misura per lui da una sartoria e calza su di lui alla perfezione. Ma i cappellini stile baseball da rapper dilettante, quelli, è difficile perdonarglieli…

A Dakar ha moglie e figlio che non vede da qualche anno. La sua età è di trent’anni, a dispetto della fisionomia e lavora come manovale edile, tra i cantieri delle nuove periferie di Roma est, oltre il Grande Raccordo Anulare e le villette a schiera dell’hinterland.

Ci ha annunciato di aver trovato casa più di due mesi or sono. Vicino a Casa Scalabrini, ci ha detto, insieme a due colleghi, suoi connazionali. Ha anche versato una congrua cauzione. Ma la chiave non gli è stata mai consegnata. Dopo oltre un mese di rinvii, per non meglio precisati motivi, un pomeriggio, rincasando dal lavoro, mi ha chiesto di accompagnarlo alle soffitte, nello spazio adibito a deposito dei bagagli, per recuperare le sue valigie.

Iniziando a salire i tre piani di scale, gli dico: “Allora? Sono finalmente arrivate le chiavi della nuova casa? Se non era per le valigie te ne andavi senza salutarci!”. Le mie domande cadono in un profondo silenzio. Troppo silenzioso, anche per D. Allora mi fermo, a metà della penultima rampa di scale: “D, stai prendendo le valigie per andare nella nuova casa, vero?”. Con un filo di voce e con lo sguardo basso, D mormora: “Non proprio”.

Così siamo scesi in ufficio, senza recuperare le valigie e ci siamo seduti attorno ad un tavolo, io, D e la collega. Ci ha confidato che le chiavi della casa nuova non le aveva e non le avevano neppure i due colleghi, futuri coinquilini e che, come se non bastasse, nessuno dei tre aveva neppure visto l’alloggio. Ma un loro connazionale, degno di fiducia, faceva da tramite tra loro e il locatario e garantiva che sarebbe stata solo questione di qualche giorno prima che i tre, da me e la collega soprannominati, a quel punto, Aldo, Giovanni e Giacomo avessero piena disponibilità della casa.

Preoccupati e sapendo che ce ne saremo pentiti, abbiamo chiesto a D di poter telefonare, in sua presenza, al molto reverendo connazionale intermediario e D ha acconsentito, quasi rincuorato dalla nostra proposta. Ne è seguito un viaggio, un trip sociologicamente interessante ma che ci ha lasciato con una forte emicrania e generiche rassicurazioni da parte del misterioso personaggio che appariva anche un po’ piccato per la nostra mancanza di fede ma, al tempo stesso, comprensivo e paziente nei confronti dei nostri limiti strutturali.

Terminata la telefonata il mio sguardo e quello della collega si sono rivolti severi verso il povero D che andava progressivamente sprofondando nella poltrona e scomparendo nel bavero del giubbotto di jeans, con la visiera del cappellino ormai ad altezza naso. Da lì sotto, dopo qualche secondo abbiamo udito un sussurro: “Io, adesso penso che vado a magiare”. È stato a quel punto che la collega, più giovane di me e molto più romana è sbottata in un: “Te devi svejà! Hai capito? Te de-vi sve-jà!”. Ma con D è oggettivamente difficile arrabbiarsi e allora, con tono sempre burbero ma con un che di materno, dopo una pausa, ha aggiunto: “E mo’ va a magnà, ché è tardi!”

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