We Care for Chiara & Federico
Trieste: aiutati (noi) ad aiutare (gli altri)
La Piazza del Mondo è un’oasi nel deserto, un porto sicuro dove ci si prende cura di corpi e anime feriti, dove dopo torture, respingimenti, freddo, smarrimento, paura e disperazione, i ragazzi provenienti dalla Rotta Balcanica trovano volti amici, un pallone con cui giocare, un lenzuolo su cui elaborare i loro lutti, cibo, coperte, mani più o meno esperte che si prendono cura dei loro piedi martoriati da giorni infiniti di cammino.
La Piazza del Mondo è davvero un qualcosa di speciale, un’esplosione di gioia e umanità, una bolla di fraternità in cui i ragazzi della rotta, trovando un po’ di accoglienza, restituiscono, increduli, il loro affetto, allargando il cuore dei volontari. Si assiste a tanti momenti commuoventi e a tanti slanci di generosità e gratitudine da parte di persone che hanno appena passato l’inferno. Si vivono momenti anche molto semplici di gioco, danza, conversazioni amichevoli.
Questo luogo è fisicamente Piazza della Libertà, adiacente alla stazione ferroviaria della città di Trieste. Qui da ormai qualche anno l’associazione Linea d’Ombra porta aiuti e calore umano alle centinaia di persone che ogni giorno, dopo viaggi durati anni, bussano ai confini del nostro paese, trovando proprio in Trieste la frontiera con l’Italia e l’Europa occidentale.
Noi siamo Chiara e Federico, moglie e marito, medici. Quest’anno abbiamo scelto di dedicare una settimana della nostra estate alla scoperta del lavoro di Linea d’Ombra e della Piazza del Mondo, mettendo a disposizione le nostre mani e la nostra professionalità.
Siamo arrivati a questa esperienza grazie ad ASCS, realtà di volontariato a cui siamo legati da anni e che ha segnato il nostro cammino individuale e di coppia. È bastato esprimere il desiderio di dedicare una settimana di servizio in qualche realtà di bisogno per ricevere il contatto di Lorena, donna meravigliosa, responsabile di Linea d’Ombra. Con ASCS come garante è stato facile per noi affidarci e decidere di partire.
Per raccontare il perché di questa scelta e della nostra sete di Altro, di metterci in gioco, è utile riassumere la nostra esperienza in ASCS, che ormai dal lontano 2016 ha contribuito alla nostra crescita come persone.
Tutto è iniziato da un desiderio abbastanza astratto: quello di toccare con mano, da vicino, quel fenomeno dell’immigrazione di cui tanto si parlava e si parla. Non sapevamo bene cosa volessimo fare, ma volevamo incontrare dei volti e imparare qualcosa riguardo un argomento delicato su cui spesso le notizie sono confuse o sbagliate. La risposta ci è arrivata dal campo Io Ci Sto 2016, trovato sul web: a Borgo Mezzanone, nel Tavoliere delle Puglie, abbiamo scoperto tanto su immigrazione, caporalato, sfruttamento, ingiustizia. Con altri giovani come noi ci siamo messi in gioco, insegnando un po’ di italiano ai ragazzi migranti lavoratori stagionali, impiegati nella raccolta dei pomodori. Questa prima esperienza ci ha aperto tanto gli occhi sulla realtà e sul mondo in cui viviamo, ma non ha acquietato la sete di conoscere e incontrare. Anzi, l’ha ampliata e ha aggiunto nuovi desideri: quello di capire ancora di più le contraddizioni, lottare contro ciò che è ingiusto e lede la dignità umana, accogliere la sofferenza di tante persone private di tutto e avere la forza di sentirsi responsabili e coinvolti, interpellati da tutto ciò.
Dopo quel campo abbiamo deciso di intraprendere il corso di formazione per il volontariato internazionale di ASCS. Il percorso ci ha portato a partire per Haiti nell’estate del 2017, dove abbiamo trascorso 5 settimane. Tra tutte le esperienze vissute di questo genere, come coppia o come singoli, riconosciamo questa come determinante nella nostra vita. Haiti ci ha mostrato il volto peggiore della povertà e delle brutture che esistono al mondo. Ma allo stesso tempo ci ha donato momenti di grande grazia, come fiori in una discarica: belli, ostinati e potenti. Intorno a questa immagine abbiamo costruito la nostra identità di famiglia negli anni. Non a caso è stato proprio su un pick-up impolverato che rimbalzava sulle strade sconnesse di Port-au-Prince che abbiamo deciso di sposarci.
Tornati a casa, abbiamo continuato il nostro cammino dentro e fuori ASCS, sempre più convinti che la strada dell’accorgersi dell’Altro e rimboccarsi le maniche fosse l’unica da percorrere per noi. In particolare, in ASCS ci siamo buttati nel progetto “Il Mondo in Casa” dall’autunno del 2017, un modo per promuovere l’incontro tra persone di diverse culture nella nostra città, per abbattere la paura del diverso che tanto affligge la nostra società. Una bella maniera di vivere nel quotidiano i valori in cui crediamo.
Nel 2019, ormai terminato da parte di entrambi il percorso di studi in medicina e chirurgia, siamo tornati a Borgo Mezzanone, con alcuni cari amici con cui desideravamo condividere l’esperienza. Questo secondo campo Io Ci Sto è stato una conferma, alla vigilia dei cambiamenti che ci aspettavano nel 2020. Ci siamo sposati il 26 settembre, dopo scossoni e cambi di programma pandemia-correlati, nella Chiesa del Carmine a Milano, parrocchia scalabriniana che accoglie la sede di ASCS. Ci è sembrato il posto migliore dove dirci il nostro sì, visto il percorso fatto e il legame affettivo con una realtà che ci ha sempre spinto a dare quello che potevamo in una misura personalizzata, che ci ha sempre fatto venire voglia di continuare a spenderci, nonostante gli ostacoli e le difficoltà.
Con questa storia alle spalle, è stato bellissimo partire per Trieste “inviati” da ASCS. Per noi, anche se breve, è stata un’esperienza davvero significativa. Il primo volontariato come marito e moglie, il primo post pandemia, il primo in campo sanitario da medici e non studenti.
Come medici, spesso si rischia di ergersi su un piedistallo e sentirsi superiori o estranei al dolore e all’umanità che incontriamo. Frasi del tipo “non aiuto questa persona in strada da volontario perché non è conforme alla mia professionalità”, o “non ci sono le condizioni per lavorare” sono piuttosto frequenti. Siamo felici che Trieste ci abbia portato in maniera molto netta nella direzione opposta.
Il primo giorno in Piazza è stato uno shock. C’è stata un’emorragia di arrivi, complice il fatto che il 15 agosto i controlli alle frontiere si attenuano. Ci siamo trovati catapultati in questa realtà nuda e cruda, di bisogno. Con le nostre mani, pochi farmaci, garze, aghi, lamette e i nostri strumenti abituali ci siamo lasciati inghiottire da un vortice. La nostra prima esperienza di cura è stata un fare continuo, per cinque ore di fila, in cui abbiamo capito che per essere davvero al servizio occorre annullarsi, farsi piccoli, consapevoli che si ha la responsabilità di condividere le conoscenze e il bagaglio professionale con chi ne ha disperato bisogno.
Non si deve avere paura di essere medici o in generale persone che si sporcano le mani. Possiamo dire che questo è stato uno degli insegnamenti più forti e veri della Piazza. I piedi dei ragazzi migranti sono sporchi, piagati, puzzano. La panchina su cui lavoravamo era sudicia. Gabbiani e piccioni ci facevano posto quando arrivavamo e le condizioni igieniche non erano ideali. Niente era ideale, in effetti. Ma lì si pone una scelta: devi aspettare le condizioni giuste per te, che ti mettono a tuo agio per metterti in gioco? Forse occorre invece fare quello che si può con quanto ci viene concesso, spogliandosi del proprio io, mettendosi davvero al servizio. La risposta davanti a quelle ferite è quindi inginocchiarsi, prendere in mano quei piedi puzzolenti, accarezzarli, prendersi cura delle ferite con ogni mezzo a disposizione. E in quel gesto, una volta vinta la paura, si trova un mistero grande, una forza immensa. Mentre eravamo indaffarati tra le piaghe di quegli uomini ci sentivamo pieni di senso, vivi, autentici. Da fuori tante persone, anche sconosciute, ci dicevano che eravamo luminosi. Noi al momento non capivamo. Eravamo presi dall’esperienza, immersi, grati perché, come spesso accade, dando, stavamo ricevendo più di quanto ci sentissimo di meritare: sorrisi, gratitudine, condivisioni di storie di vita, successi terapeutici incredibili, affetto, accoglienza, momenti di festa.
Poi abbiamo capito: nei giorni in cui c’è stato per noi il tempo di fermarsi, chiacchierare, abbiamo guardato gli altri volontari intorno a noi, soprattutto Lorena. Ed eccola lì la luminosità di cui ci parlavano. Una donna anziana che dedica sé stessa agli altri, che ama, si prende cura e non ha paura di accogliere su di sé parte del dolore fisico e spirituale di quei ragazzi. Qualcun altro più di duemila anni fa parlava della potenza dell’amore fino al sacrificio di sé e del farsi piccoli per essere grandi. La Piazza di Trieste è uno dei pochi luoghi su questa terra che ci ha fatto pensare che avesse davvero ragione.
Detto tutto questo, siamo consapevoli che una settimana vissuta così sia solo una goccia in un mare di bisogno. Tanta umanità grida il suo dolore, tante situazioni di ingiustizia accadono e c’è talmente tanto male in questo mondo che ci si sente soffocare. Si pensa che sia troppo difficile portare un miglioramento, quasi utopistico. Realtà come Linea d’Ombra e ASCS ci insegnano che non è così. Non si possono cambiare le cose con facilità e spesso si fallisce, ma si può essere ostinati ed insistere, come un fiume che piano piano scava la roccia. E un passo alla volta, con tanti piccoli gesti all’apparenza insignificanti, si può fare la differenza. Magari non per l’umanità intera, ma sicuramente per la persona che si ha davanti. Ringraziamo tanto la Piazza del Mondo, Lorena, Gian Andrea, ASCS e tutti gli altri volontari incontrati. Perché ci fanno sentire parte di un’umanità virtuosa, che resiste, testarda, che crede che sia nostro dovere prenderci cura di chi soffre o viene privato della propria dignità di uomo o di donna. È bello non sentirsi soli e sapere di camminare insieme verso un obiettivo comune.