La mia esperienza di volontariato con ASCS
Mi chiamo Giacomo Distefano, ho 26 anni e vengo da Bologna. Dopo la laurea in Medicina e un anno di lavoro in campo medico ho deciso, insieme alla mia ragazza Giulia, di prendermi un periodo da dedicare al volontariato, prima di immergermi definitivamente nella vita lavorativa. Negli ultimi anni mi sono avvicinato al mondo dell’immigrazione, dopo aver partecipato al progetto “Io Ci Sto” portato avanti dagli Scalabrini nell’insediamento informale di Borgo Mezzanone in provincia di Foggia. In quell’esperienza ho davvero apprezzato l’impegno e l’approccio Scalabriniano ad una tematica così attuale e difficile da affrontare, ed ho così deciso di partecipare alla formazione del programma di volontariato internazionale offerto da ASCS. Tramite questo progetto ho avuto quindi la possibilità di partire per Città Del Capo e partecipare ai programmi dello Scalabrini Center of Cape Town (SCCT), da settembre a dicembre 2019.
La mia non è stata la tipica esperienza del volontario o dell’intern allo Scalabrini Center, infatti ho passato gran parte del mio tempo dedicandomi al progetto della Lawrence House, l’unico del SCCT a non essere situato fisicamente nella sede centrale dell’istituto. Lawrence House è una casa che accoglie circa 25 bambini e ragazzi rifugiati tra i 5 e 19 anni, che hanno vissuto traumi, abbandono, violenza nella loro storia migratoria.
La casa è gestita da due operatrici italiane, Giulia e Romina, che mi hanno subito fatto sentire parte integrante e importante del progetto, e da diversi educatori Sudafricani che passano giorni e notti all’interno della casa dando supporto ai ragazzi nelle attività quotidiane. C’è poi anche un assistente sociale che si occupa di gestire il difficile percorso che questi ragazzi devono intraprendere, dentro e fuori dalla casa.
Questo è un progetto davvero speciale, non richiede particolare preparazione o conoscenza in un ambito specifico come gli altri progetti del SCCT, ma solo tanta voglia di mettersi in gioco, di ascoltare e accogliere ciò che i ragazzi hanno da offrirti, anche tra le difficoltà, giorno dopo giorno. Per me è stata un’esperienza davvero totalizzante che mi ha permesso di tornare a casa tutte le sere col sorriso e con una piccola o grande lezione da portare per sempre con me. Nonostante le ragazze e i ragazzi che vivono alla Lawrence House siano tutti molto giovani, alcuni addirittura bambini, hanno spesso una tale esperienza di vita da poterti insegnare molto di più di quello che tu puoi insegnare loro. Passare del tempo con loro ti permette di avere una visione d’insieme di cosa voglia dire integrazione tra diverse persone e culture. Tutti i giorni alla Lawrence House si trovano in una stessa stanza ragazzi e bambini provenienti da diverse nazioni, con storie ed esperienze di vita opposte. In quelle stanze tutte le loro diversità si scontravano e scomparivano allo stesso tempo e, da esterno, non si può fare altro che osservarne la bellezza. Chiaramente non è tutto facile e bello alla Lawrence House, stiamo sempre parlando di ragazzi che hanno vissuto traumi importanti e con alle spalle storie difficilissime e spesso la tensione, le difficoltà, la disillusione è tangibile all’interno della casa. Dal mio punto di vista, essendo io interessato all’ambito della psichiatria infantile, è stato davvero interessante potere condividere momenti e ascoltare le storie di ragazzi e bambini con traumi importanti, che spesso li portano a dovere affrontare anche patologie psichiatriche. Porterò sempre con me quei volti, quei sorrisi, quelle lacrime, quei litigi, quelle storie cosi forti e cosi lontane da noi che mi hanno dato un’idea, se pur minima, di quanto possa essere complicata e faticosa una storia di immigrazione.
La mia esperienza in sede allo Scalabrini Center è stata invece molto diversa ma altrettanto interessante e coinvolgente. Qui ho avuto la possibilità di partecipare a due differenti programmi del centro: la English school for migrants ed un lavoro di ricerca al Sihma.
La English school mi ha ancora una volta permesso di entrare direttamente a contatto con tante persone provenienti da tutto il continente africano. In questo progetto il mio ruolo era quello di assistente l’insegnante in una classe di Inglese di base, che comprendeva quindi persone che avevano il loro primo contatto con la lingua. È stato incredibile vedere l’impegno che queste persone mettevano nell’imparare una nuova lingua nonostante le difficoltà e notare i miglioramenti tangibili da una lezione all’altra. Vedere persone prima incapaci di esprimersi come vorrebbero, diventare piano piano capaci di farlo è come vedere rinascere una persona. Lavorare alla English school è stata una grande opportunità per potere capire l’importanza della comunicazione nella vita di ogni giorno e per toccare con mano le difficoltà e il senso di alienazione che le persone vivono durante il processo migratorio, proprio a partire dalla difficile comprensione della lingua. Credo che questo progetto sia uno dei più diretti e importanti promossi dallo Scalabrini center, in quanto primo a dare una concreta possibilità ai migranti di interagire e iniziare ad integrarsi in una società così diversa da quella di origine.
L’ultima parte della mia esperienza si è svolta invece allo Scalabrini Institute For Human Mobility in Africa.
Il lavoro che fa il Sihma rispetto al resto dei progetti del SCCT è abbastanza diverso: il fulcro del progetto è infatti la ricerca riguardo al fenomeno migratorio uscendo dai confini delle politiche sudafricane e offrendo una ricerca a più ampio spettro, che punta ad una dimensione continentale.
Qui ho potuto approfondire in maniera più completa la mia conoscenza teorica riguardo alla migrazione in particolare del continente africano. Nello specifico mi sono focalizzato su un progetto di analisi della forma di accoglienza operata in Uganda attraverso l’istituzione di “refugee settlements”, scelta diametralmente opposta a quella dei “refugee camp”, tipici del continente europeo. Attraverso analisi di interviste e ricerca in letteratura ho potuto conoscere più a fondo i meccanismi di questa tipologia di accoglienza che mette al centro la convivenza e l’integrazione tra i rifugiati e le comunità ospitanti locali, con ultimo fine quello di migliorare le condizioni di vita di entrambi questi gruppi. Seppure la ricerca possa sembrare avere una dimensione strettamente teorica, è stato bello vedere come il Sihma cerchi poi di applicare questa conoscenza teorica del fenomeno migratorio alla vita e ai problemi pratici delle persone che si trovano in questa condizione.
Nel complesso, posso senza dubbio dire che ho avuto una straordinaria esperienza di volontariato. Sono profondamente convinto che porterò sempre con me le persone che ho incontrato a Cape Town e che le conoscenze e i valori che ho sviluppato avranno sicuramente un impatto sulla mia vita professionale e personale.
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