Si vas para Chile
Sono Marta, ho 29 anni e vivo a Milano. Sono educatrice e pedagogista e lavoro per una cooperativa sociale dove mi occupo della gestione e attività sul campo di progetti educativi. Collaboro inoltre in un progetto di teatro sociale, dopo aver scoperto negli ultimi anni la passione per il teatro e il desiderio di integrarlo anche nel mio lavoro.
Da tre mesi mi trovo a Santiago del Cile, presso la missione scalabriniana dove sto svolgendo il mio servizio come volontaria internazionale su invio di ASCS.
La decisione di partire per un volontariato internazionale è partita da un desiderio presente da tempo e riemerso in un momento in cui ho sentito un’urgenza di sbilanciarmi, una necessità di cambiare baricentro e dunque punti di riferimento.
Nel periodo in cui stavo iniziando a prendere in considerazione la possibilità di partire, ho incontrato un’amica che collabora con ASCS. Io conoscevo da poco l’associazione, per l’impegno rispetto alle tematiche migratorie, ai diritti delle persone in movimento, all’attenzione per l’educazione interculturale e infine per il suo lavoro sulle frontiere europee. Mi interessava molto l’approccio di ASCS in queste direzioni, e così ho deciso di partecipare al corso di formazione per volontari internazionali.
Il partecipare al corso mi ha permesso di essere accompagnata insieme al gruppo a riflettere sulle motivazioni del viaggio, sul mio desiderio e anche a fare i conti con alcuni pregiudizi e paure. L’esplicitazione di tutto questo è stata molto importante: mi ha permesso di appropriarmi maggiormente della mia scelta e di partire con la consapevolezza di alcune dinamiche a cui prestare attenzione.
Sono partita con il desiderio di mettermi a servizio, sapendo che entrare in una nuova realtà significa in parte perdere i propri riferimenti, significa incontrarsi e a volte scontrarsi con una realtà che mette in discussione il proprio sapere e la propria competenza, significa lasciarsi guidare dalla nuova situazione a capire come le proprie specificità, capacità e limiti incontrano un contesto culturale differente. Occorre prima di tutto ascoltare e ascoltarsi, mentre si impara una nuova grammatica (sia linguistica che relazionale) e da lì capire quale spazio occupare e come effettivamente mettersi in una posizione di disponibilità che accoglie ciò che viene e le persone che si incontrano. E, prima di tutto, occorre lasciarsi accogliere.
Qui in Cile sto affiancando l’equipe del Ciami (Centro integrato di attenzione al migrante) della Fondazione Scalabrini. Sono arrivata in un momento di trasformazione del progetto e ho potuto quindi vedere la sua evoluzione e partecipare in itinere ad alcuni pensieri e fasi progettuali. Il Ciami è un centro diurno che si rivolge alla comunità migrante; è un luogo di sostegno dove si forniscono aiuti primari come cibo o vestiti, assistenza psicologica gratuita o orientamento ad altri servizi della città. Il Ciami è inoltre un centro di formazione lavorativa, attualmente attivo con progetti che hanno come focus soprattutto il sostegno alla microimprenditorialità femminile. Molte donne con una storia di migrazione, che sia più o meno recente, incontrano una difficoltà maggiore nel conseguire un impiego rispetto a compagni o familiari uomini; soprattutto perché, come spesso accade anche in altri contesti, il carico di cura di figli o di altri parenti ricade ancora prevalentemente sulle donne. Incontriamo donne che nel paese di origine erano professoresse, infermiere, avvocate, economiste, i cui titoli di studio universitari non vengono riconosciuti e dunque si trovano nella condizione di non poter mettere a servizio la propria competenza. Incontriamo donne che, nonostante tale fatica, hanno la capacità di ripensarsi e far fruttare altre competenze e dunque inventarsi forme di imprenditorialità domestica. Diventa allora importante poterle sostenere con comunità di apprendimento, di cura e di sostegno reciproco e questa è una delle mission del Ciami: essere luogo di legami che facilitino l’uscita dalla condizione di esclusione.
Un’altra parte importante della mia esperienza qui a Santiago è la condivisione con le famiglie accolte nella Residenza familiare che la Fondazione gestisce e dove mi reco tutti i giorni a fare colazione, pranzo e cena. La colazione e il pranzo sono i momenti in cui si condivide con l’equipe che lavora nella Residenza, equipe che è essa stessa interculturale, è essa stessa equipe migrante. Con motivazioni, gradi di difficoltà o possibilità differenti, si condivide il fatto di essere lontani dal Paese di origine, da alcuni affetti, dal sapore di casa nativa. Questa esperienza del distacco, seppur con le dovute differenze, permette la condivisione di alcuni vissuti ed esperienze simili, di alcune sfide, di alcuni dolori o nostalgie. E questa mancanza o irrigidisce o apre all’altro, rendendo la propria identità più disponibile a lasciarsi contaminare.
L’esempio più lampante di questa contaminazione è la lingua: una delle cose più interessanti dei contesti dove si incontrano persone che provengono da Paesi diversi, è che la lingua che si apprende è contaminata dalle sfumature di senso o dalle parole specifiche di ciascuna persona. Ci sono alcune parole cariche affettivamente che non hanno lo stesso sapore e la stessa emozione se dette in altro modo; la lingua è impastata con l’esperienza, perciò mettere in comune i significati e le sensazioni connesse a questi permette alle persone di avvicinarsi e condividere. E così, lo spagnolo che si parla diventa un impasto di espressioni cilene, venezuelane con alcune incursioni di portoghese.
Nella Residenza si condividono storie, il cibo, gli spazi, così come si condividono le sfide di una normale famiglia, ma moltiplicate per quattro. Allora accade che nei momenti di necessità di una delle famiglie, le altre si fanno rete di appoggio e condividono la sfida, che sia per la preparazione di una festa di battesimo o l’appoggio per curare i bambini quando i genitori si trovano in ospedale a occuparsi di uno dei figli.
Sono infine partita con il desiderio di conoscere un Paese, il Cile, che per diverse ragioni chiamava molto la mia attenzione, con la curiosità di conoscere le dinamiche migratorie e come la società cilena si relaziona alla sfida e alla realtà della convivenza. Ho trovato un Cile che come altri luoghi del mondo da un lato accoglie, protegge e ascolta le storie di vita di chi arriva; dall’altra respinge, si chiude e si lascia andare a retoriche false e a volte violente.
Ci sono retoriche che fanno male e ingabbiano anche quando pensiamo di stare in una parte di società sana e di avere una mente aperta, che comunque assimiliamo e che contribuiscono a alimentare pregiudizi e risentimenti. È quando queste vengono sostituite dalla condivisione concreta della vita, dagli abbracci e dagli occhi negli occhi che le retoriche perdono il loro potere; sono grata di averlo potuto vedere e sperimentare qui.











