Alla Casa del Migrante di città del Guatemala, dove un sorriso fa la differenza
Mi chiamo Marco, ho 39 anni e sono un volontario di ASCS. Vengo da Lugano, in Svizzera, e di formazione sono filosofo e di professione, insegnante di scuole superiori. Il mio avvicinamento al mondo del volontariato (anche se non con ASCS) è avvenuto per la prima volta 3 anni or sono: era il 2021 e come probabilmente molte persone in quell’anno, ho iniziato a sentire il peso della pandemia. Dopo un anno di restrizioni, di speranze che la situazione sarebbe velocemente cambiata e si sarebbe potuti tutti tornare alla vita di prima, ho deciso che fosse il momento di fare un’esperienza altrove in cui potessi confrontarmi con realtà differenti e in cui io potessi mettere a servizio le capacità di insegnante che ho sviluppato in una decina di anni di carriera. Ho scelto quindi di andare in Messico per cinque mesi e lavorare con bambini e adolescenti di strada. La meta era una città adagiata all’estremo confine sud del Messico, molto vicina alla frontiera con il Guatemala. Posso dire che quell’un’esperienza arricchente è stato il primo passo per coinvolgermi poi, successivamente, nel campo del volontariato…
Due anni dopo quell’esperienza, ovvero nel 2023, ho saputo tramite mia cognata della possibilità di fare volontariato in Guatemala, in quanto la sua parrocchia, in Svizzera, è guidata dai padri scalabriniani che sostenevano, appunto, un progetto in Centro America. Evidentemente, come spesso accade in questo ambito, non si può improvvisare, per questo sono venuto a sapere che avrei dovuto partecipare a tre fine settimana di formazione a Torino, assieme ad altri partecipanti per poi prendere parte ad una delle tante forme di volontariato che ASCS sostiene in molte aree del mondo. Come sempre, gli inizi non sono mai semplici. Davanti a qualcosa di nuovo si ha sempre un po’ di timore. Mi ricordo di essere partito per il Piemonte il venerdì sera di un giorno di novembre, in maniera tale potermi preparare tranquillamente al primo giorno di formazione che avrebbe avuto luogo il giorno seguente. Quel venerdì sera sarei stato ospite di due volontarie che abitavano a Chieri. Ammetto che non fu evidente arrivarci nell’oscurità di una sera di novembre. Ma sono stati proprio quei tre fine settimana a Torino che mi hanno permesso poi di avere metaforicamente un equipaggiamento adeguato per la missione che ho svolto alla Casa del Migrante di Ciudad de Guatemala, dove sono stato da luglio ad agosto 2024. Infatti, tra gli elementi più importanti che avrei dovuto mettere “in campo” durante il mio servizio, vi è un principio che ho appreso proprio a Torino e che si può concentrare in questa piccola, semplice ma fondamentale frase: “concentrati sull’essere piuttosto che sul fare”. Perché questa frase appresa in un salone di Torino è stata poi importante direttamente sul campo? Perché quando ci si trova in un’altra realtà del mondo, la percezione del tempo non è la medesima che abbiamo qui in Occidente. Noi viviamo con il mito del fare e del progresso. Ci muoviamo a una velocità straordinariamente rapida sulla sdrucciolevole linea del tempo. Ebbene, in missione le cose non vanno esattamente così. Ed è quello che ho constatato proprio alla Casa del Migrante in cui si ospitano quotidianamente per una notte, fino a circa 140 persone che sono di passaggio per raggiungere gli Stati Uniti. Nel mese in cui sono stato al servizio della Casa, ho compreso che il tempo si percepisce in maniera diversa: durante l’arco della giornata si alternano momenti in cui tutto accelera improvvisamente ed altri invece che rallentano vorticosamente. E raramente si sa quando questo cambio di passo avvenga.
E allora, adesso, vale la pena di entrare di più nei dettagli della mia esperienza. Ricordo prima di tutto con piacere di essere stato accolto in struttura da Paolo – volontario con cui avevo seguito la formazione a Torino – e alla sua ragazza Elisabetta. Si trattava del primo pomeriggio dell’8 luglio. Quando si arriva in un luogo nuovo e si incontra un viso conosciuto, beh, non c’è che dire, che la sensazione di sollievo ti abbraccia e ti stringe fortissimo. Dopo aver incontrato loro due, ho potuto conoscere Padre Francisco, che gestisce la casa e tutti i professionisti all’interno della struttura. I compiti che mi avrebbero aspettato nelle settimane seguenti a contatto con coloro che cercano un futuro migliore migrando, erano di base tre: dare supporto alle professioniste della cucina nella preparazione e la distribuzione dei pasti (colazione e cena), distribuire alcuni capi di abbigliamento a chi ne aveva bisogno (ricevevamo quotidianamente donazioni di vestiti che mettevamo in un piccolo locale chiamato “Bodega”) e provvedere alla pulizia delle camere nella seconda parte della mattinata. Non posso dire che ci fosse qualcosa che preferissi rispetto ad altro nei turni. Infatti tutte queste mansioni mi hanno permesso di apprendere qualcosa.
La distribuzione dei pasti mi permetteva infatti di vedere con i miei occhi, quello che significa “aver fame”. So che sembra quasi banale da dire, ma molto raramente nella mia vita mi è capitato di incontrare persone che avessero fame, che non mangiassero da giorni. E al tempo stesso di poter leggere sul loro viso la soddisfazione di trovare finalmente un pasto caldo con cui poter riprendere forza. Mi ricordo che in alcuni casi, nel tono della voce, gli esseri umani con cui ho lavorato, manifestavano tutto il piacere e il godimento di poter mettere qualcosa in bocca per nutrirsi. La distribuzione invece dei capi di abbigliamento mi ha permesso di vedere quanto qualcosa che noi chiamiamo semplicemente “accessorio” come una maglietta oppure un paio di calze possano veramente essere fondamentali per affrontare un viaggio così arduo. Mi ricordo le reazioni di alcune persone che sventolavano come fosse un trofeo, un paio di pantaloni o una maglietta. O ancora un bambino o una bambina a cui luccicavano gli occhi ricevendo una maglietta su cui era stampato il protagonista del loro cartone animato preferito, ad esempio “Frozen” o “Cars” o il più datato “La Sirenetta”. A volte, poi, lungo quel corridoio della casa in cui distribuivamo la “ropa” (appunto i capi di abbigliamento), magari qualcuno trovava la forza e la voglia di raccontare qualcosa del proprio viaggio, come un padre di famiglia che ci ha raccontato che cosa significasse attraversare una foresta, farsi coraggio per fare coraggio ai membri della propria famiglia. E in una circostanza simile mi sono sentito un privilegiato per aver potuto ascoltare quel tesoro che sono le emozioni più intime di un essere umano, quel tesoro che nel nostro Occidente benestante tendiamo a tenere chiuso a doppia mandata perché condividere come ci sentiamo risulta essere spesso, secondo i valori della nostra società, una debolezza.
Ma anche il turno di pulizia delle camere, alla mattina non era qualcosa che può apparire così ovvio come sembra. Scopando e lavando i pavimenti della struttura, ho pensato a tutte quelle persone che anche da noi fanno le pulizie di uffici, bagni, corridoi e di quanto sia bello poter arrivare in un luogo che sia pulito e di quanti sforzi, spesso impercettibili ci sono dietro il profumo di una struttura pulita poche ore prima.
Più in generale, lavorare presso la Casa del Migrante, mi ha permesso di ricordarmi che le fortune che ci capitano nelle nostre realtà sono l’eccezione rispetto a quanto accade nel mondo. Al tempo stesso, ho potuto rafforzare un’idea che ormai da tanto tempo passa per la mia mente: che dietro i numeri freddi che spesso sentiamo in un telegiornale oppure in un’immagine spettacolarizzante che vediamo sulle reti sociali, vi sono storie di persone, persone che hanno sentimenti, hanno paura, hanno speranze, hanno desideri. E questo non dobbiamo mai dimenticarlo perché quello che stanno passando le persone che si muovono in questo momento nel mondo, nella maggior parte dei casi, raramente è frutto di una scelta, bensì di una necessità.